Per gli archeologi marini è come aver ritrovato sott’acqua la tomba di Tutankhamon. È notizia di questi giorni che, dopo centosette anni, è stato individuato a tremila metri di profondità il relitto dell’Endurance, la nave con cui Sir Ernest Shackleton è passato alla storia per una delle vicende più eroiche nel campo delle spedizioni.
Ripercorriamola insieme.
“Cercasi equipaggio per viaggio pericoloso: paga misera, freddo intenso, lunghi mesi di oscurità totale e ritorno non garantito.”
Questo l’annuncio che, nell’estate del 1914, i più importanti giornali inglesi pubblicarono su richiesta di Ernest Shackleton, esploratore anglo-irlandese. Nonostante le premesse poco invitanti, le candidature superarono le cinquemila. Tra queste, venne scelta la ciurma per un’impresa mai tentata prima: attraversare a piedi il Polo Sud.
Il primo agosto, la nave Endurance partì da Londra con il comandante, ventisette membri di equipaggio e sessantanove cani da slitta. Un viaggio tormentato con forti venti e onde alte più di dieci metri. Finalmente, il 18 gennaio 1915, la nave toccò la terraferma del mare di Weddel.
Allestito il campo base, le cose si misero subito male: una morsa di ghiaccio imprigionò la Endurance.
Dopo mesi alla deriva nel pack, Shackleton e i suoi uomini, raccolti i viveri e messe in salvo le scialuppe, abbandonarono la nave.
Alle porte dell’inverno polare e a migliaia di chilometri di distanza dalle terre abitate più vicine, ai ventotto uomini fu chiara una cosa: la traversata continentale sarebbe passata in secondo piano. La priorità sarebbe stata quella di uscirne vivi.
Il 9 aprile del 1916, Shackleton diede l’ordine di mettersi in mare. Ma prima fu necessario un gesto drammatico: sopprimere i cani.
Dopo quindici giorni di navigazione in condizioni proibitive tra mare agitato, freddo, stanchezza e spazi angusti, gli uomini raggiunsero un’isola chiamata Elephant Isle. Solo neve, ghiaccio e poche rocce.
Shackleton capì che l’unica possibilità di salvezza sarebbe stata raggiungere la Georgia del Sud, distante più di 1200 chilometri. Partì con una sola scialuppa e cinque uomini, con un una scelta che oggi potrebbe sembrare incongrua: anziché i marinai più dotati portò con sé i piantagrane.
Sapeva bene che, lasciandoli sull’isola, avrebbero potuto minare la fiducia e il morale degli altri a cui raccomandò di tenere duro e di organizzarsi per mantenersi in vita. Sarebbe occorso molto tempo ma di una cosa si dimostrò sicuro: sarebbe tornato a riprenderli.
Fu Shackleton a tenere il timone per la maggior parte dei sedici giorni di viaggio. A destinazione, ancora una volta, il ghigno beffardo della sorte: la scialuppa attraccò esattamente dalla parte opposta rispetto al villaggio.
I sei uomini, legati l’un l’altro, iniziarono così la traversata dell’isola non potendo fermarsi per non morire assiderati. Scalarono montagne e ghiacciai in condizioni estreme e, dopo tre giorni, raggiunsero finalmente il villaggio.
Con senso di responsabilità e coerenza Shackleton cominciò fin da subito a organizzare la spedizione. Furono ben tre i tentativi di raggiungere i suoi uomini ma l’inadeguatezza dei mezzi o le condizioni avverse lo obbligarono a desistere.
Fece rotta, così, sulle isole Falkland per chiedere aiuto alla Gran Bretagna. Ma la madrepatria, impegnata con il conflitto bellico, non avrebbe potuto inviare aiuti prima di sei mesi.
Neanche stavolta l’uomo si diede per vinto riuscendo a ottenere l’aiuto del governo cileno.
Il 30 agosto 1916, a distanza di ben 4 mesi, la nave militare Yelcho approdò a Elephant Isle trovando, incredibilmente, i 22 naufraghi in buone condizioni.
Ernest Shackleton non attraversò il Polo Sud ma diede vita a una delle più straordinarie storie di leadership carismatica che vengono studiate ancora oggi nelle scuole di business di tutto il mondo.
“Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton”. – Raymond Priestley – Esploratore.